Ci fermammo sbigottiti e notammo due tedeschi che venivano verso di noi. Uno dei due era giovane l’altro più anziano.Vestivano l’uniforme delle truppe Waffen SS. da montagna con la stella alpina sul lato sinistro del berretto alla finlandese ed impugnavano il Mauser. ”Documenta”, ci dissero da vicino. Porgemmo quindi, senza profferire parola, il documento di identità assieme a un tesserino che attestava l’impegno di ciascuno di noi, con nome e cognome, nel lavoro per la produzione bellica nell’interesse della Germania. All’azienda industriale dove io, allora studente, comunque lavoravo, li aveva rilasciati per disposizione dell’autorità tedesca (Der Deutsche Berater =Prefetto) che aveva sovranità sul territorio, un comando croato-ustascia sottoposto ai tedeschi. insediato a Bad Lusnizz in comune di Malborghetto nella val Canale, dove l’azienda aveva un noto stabilimento. A “Bibi”, studente che non lavorava , il tesserino glielo avevo procurato io, regolarmente a lui intestato, mentre mio fratello dipendente da un’altra azienda, lo aveva per conto suo. Credetemi mi piace ricordare minuziosamente queste cose riferite a quegli anni vissuti con tante emozioni. I due tedeschi esaminarono minuziosamente i documenti ed il più giovane dei due, rivolgendosi a mio fratello, gli fece osservare che la statura indicata nella carta di identità, metri 1,75, non era esatta perché a lui sembrava che fosse un po’ più basso. Ci parve, ed ebbimo paura, che volessero trattenere mio fratello, ma dopo momenti di esitazione il dubbio fu superato e i due tedeschi ci restituirono i documenti e ci lasciarono andare.
I tedeschi sospettavano di tutto temendo che, sotto false spoglie, si nascondesse un partigiano. Il soldato tedesco vedeva nel partigiano un fuori legge che, nascosto in un qualsiasi angolo, poteva sparare ed uccidere e poi dileguarsi. Il partigiano rappresentava per il tedesco un’ostilità insidiosa sfuggente le norme di guerra, in quanto privo dei segni di regolare identificazione, diverso cioè dal nemico che indossava un’uniforme.
Ci riavviammo verso casa che distava ancora alcuni chilometri. Strada facendo incontrammo dei valligiani provenienti da Comeglians, diretti ai paesi di Noiaretto, Frassenetto e Tualis, a cui chiedemmo notizie. Ci dissero che in vari luoghi vi era stata qualche vittima, uccisa dai tedeschi durante il rastrellamento, che dei giovani erano stati deportati, infine che i cosacchi, giunti nella nostra valle attraverso la val Calda, avevano commesso atti di violenza su donne, per cui si era diffuso un clima di paura. Arrivammo alla periferia nord del nostro paese e, con sorpresa, non notammo alcuna sentinella. Procedemmo con cautela e, raggiunto il centro, ci rendemmo conto della presenza di molti tedeschi, direi centinaia con diverse macchine ed autocarri parcheggiati. Era ormai buio e temevamo, anche per le notizie ascoltate lungo la strada che, ai tedeschi, vedendo tre giovani con gli zaini, venisse inevitabile il sospetto che fossimo partigiani e ci arrestassero. Quelle riflessioni ci crearono uno stato di tensione. Potevamo proseguire e semplicemente raggiungere le nostre case ma non ci sentimmo di farlo. I tedeschi ci avevano messo soggezione, sentivamo la loro sovranità e avvertivamo quasi uno stato di sudditanza che rivelava la nostra fragilità italiana dovuta al collasso in cui era precipatata l’Italia (Nota n.2).
Consultandoci nervosamente ci venne l’idea di presentarci spontaneamente al comando delle forze che, dopo il rastrellamento, stazionavano in paese. Chiesi, in tedesco, ad un soldato di indicarmi “das Kommando Truppe” ed egli allungando la mano ed additando una casa dove si vedeva l’ingresso spalancato e illuminato , disse. “ Jaaa, in jene Haus est der Kommandeur ”( Siii, in quella casa c’è il comandante). Entrammo quindi nella stessa togliendoci i berretti, tenendo in mano le carte d' identità e quei preziosi tesserini con lo stemma croato. C’erano diversi ufficiali in piedi che parlavano tra loro e si voltarono a guardarci. Chiesi allora di parlare con “der Herr Kommandeur” (il signor comandante). Uno di loro, alto, si fece avanti e ci chiese, in italiano, “cosa desiderare” per cui, tutti e tre, ci rivolgemmo a lui in italiano dichiarando che eravamo cittadini del luogo che rientravamo da una gita in montagna dove avevamo raccolto dei funghi e, slacciando gli zaini, mostrammo i funghi. Affermammo che, stante la situazione di guerra in essere, volevamo dimostrare la nostra regolarità di cittadini impegnati nel lavoro ed esibimmo a turno i documenti. L’ufficiale ci guardò un po’ stupito forse per lo zelo dimostrato, guardò i documenti e ci disse: “ Sehr guut, guut, andare, andare (Molto bene,bene, andare, andare) e ci sorrise…!!”
Uscimmo rasserenati.
Passando accanto a un pubblico noto locale sul lato sinistro della strada, poco dopo il centro, di proprietà di un conosciuto benestante, ( S.Tavoschi ), a sua volta titolare dell’azienda trasporti pubblici della valle, notammo che, il medesimo, stava cenando assieme a molti tedeschi, tutti seduti attorno al gran tavolo della sala illuminata, ai quali presumibilmente, su loro pretesa, aveva dovuto far preparare la cena. A guardare quella scena pareva che il paese fosse in festa e non vivesse, invece, la realtà dell'occupazione.
“Bibi”, eravamo vicini alla sua abitazione, ci lasciò per cui proseguimmo soli.
Più oltre nel grande piazzale dell’ ex stazione ferroviaria in disuso da tempo, stava in sosta una massa di cosacchi con cavalli e carrette che occupavano pure la parallela via principale di accesso al paese, che noi stavamo percorrendo. Era la prima volta che vedevamo i cosacchi . Notammo fra loro anche diverse donne, talune in uniforme militare. Traggo da una mia prima pubblicazione, risalente al 1957, brevi frasi sull’impressione che fecero in me i cosacchi , “”…Nel buio della notte si mescolavano le ombre dei cavalli che fiatavano una lunga stanchezza. La luna venne nel cielo a rischiarare vagamente i loro mantelli, mostrando furtivamente attorno ai carri sagome goffe di soldati dormienti, fucili ammucchiati, ceneri semispente “”.
Leggendo vecchie pagine di quella pubblicazione provo ammirazione per me stesso. Penso che avei dovuto scrivere un romanzo che, in ogni modo, vive dentro di me, ma sento nostalgia di non averlo fatto.
Fummo costretti a procedere cautamente e, superato quell’addiaccio, ci trovammo finalmente di fronte alla nostra casa, la prima del paese sulla via principale della valle venendo da sud. Sul portone d’ingresso risultava affisso un manifesto dove, in grosso stampatello, stava scritto in tedesco EINTRITT VERBOTEN (INGRESSO VIETATO). Pensammo subito che la casa fosse occupata dai tedeschi. Mi ero dimenticato di dire che i miei genitori non c’erano. Ancora prima della nostra andata in montagna erano partiti, come centinaia anzi migliaia di carnici, donne coraggiose soprattutto, diretti a piedi, attraverso il passo di Monte Rest, nella pianura friulana e veneta alla ricerca di granaglie ed altre risorse alimentari, a causa della crisi provocata dall’attività partigiana, avendo i tedeschi bloccato ogni rifornimento alimentare. In casa erano rimaste le due nostre sorelle e, alla nostra partenza per il monte Crostis, avevamo raccomandato a un’anziana signora della casa vicina di tenerle sotto protezione.
Suonammo e poi bussammo al portone. Giunse ad aprirci un ufficiale non tedesco ma fascista che guardammo con sorpresa, al quale ci dichiarammo ed egli sorridente ci disse che le sorelle avevano già parlato di noi. Entrammo e ci sedemmo nella sala dove c’erano altri ufficiali fascisti. Giunsero frattanto, dal piano superiore, le due nostre sorelle alle quali, dopo un abbraccio, consegnammo gli zaini. Dopo di che, scambiate alcune considerazioni con gli ufficiali, salimmo nelle nostre stanze a rimetterci in ordine. La sera, dopo la cena, fu trascorsa a dialogare con i detti ufficiali. Gli stessi non si toglievano di testa l’idea che noi due fratelli fossimo partigiani scesi dal bosco dopo aver nascosto le armi. Erano tutti pordenonesi e ci lasciarono anche i loro nomi che ora non ho sottomano, ma ricordo con precisione che uno di oro si chiamava Messinese. Ci parlarono ovviamente della rinascita dell’Italia attraverso il fascismo repubblicano, delle armi segrete della Germania, del nuovo esercito repubblicano con importanti innovazioni che effettivamente, anche dal mio punto di vista come in seguito mi resi conto, non era cosa effimera e riscuoteva credito negli italiani che si aspettavano qualcosa di concreto in cui credere. Parlarono anche della situazione partigiana contro la quale in tutto il nord Italia, Carnia e Friuli compresi, era un atto da parte tedesca con l’appoggio fascista, un’inesorabile azione repressiva che portò a un decisivo, per certi versi spietato, travolgimento della forze alla macchia da cui la lotta uscì effettivamente stremata. Nell’autunno, perlomeno in Carnia, quasi non se ne sentiva più parlare e pochi nuclei resistenti sopravvivevano sulle montagne.
Gli ufficiali lasciarono la nostra casa nell’ indomani molto presto che ancora era notte, senza salutarci . Quando ci alzammo notammo che, nell’ anticamera, avevano staccato i due quadri del re Vittorio Emanuele III° di Savoia e della regina Elena accostandoli per terra con l’immagine girata verso la parete ed un biglietto accostato a uno dei due dove si leggeva “ Traditori”. Vent’anni dopo essendomi insediato con la famiglia nella città di Pordenone mentre professionalmente lavoravo anche in quel di Venezia, ebbi modo di interessarmi a dette persone. Seppi che, a fine guerra, detti ufficiali furono arrestati dai partigiani, incarcerati, condannati a morte da un Tribunale del popolo e giustiziati, semplicemente perché fascisti repubblicani. Provai umanamente dispiacere. Fra l’altro aggiungo un’altra notizia spiacevole. Alcuni anni dopo la fine della guerra seppimo che “Bibi” il nostro amico, che si era trasferito a Milano, era morto.