12 gennaio 2017
( Villaggio di Povolaro - foto di Alida Carlevaris )
Povolaro un paese della val di Gorto vicino al mio (dov' ebbi i natali ) che mi ricorda tanta gente e molte vicende. In quel paese anche se nella foto non si vedono, c’erano le scuole elementari che io frequentai e la chiesa di San Floriano, all’interno della quale stava uno splendido quadro della madonna del famoso pittore Da Pozzo di Maranzanis. Si diceva che, nel volto della vergine, il Da Pozzo avesse riprodotto le sembianze di una splendida donna del mio paese, madre come ben ricordo della mia compaesana Irma Di Vora. Nella Carnia di quel tempo, anni trenta-quaranta c’erano delle stupende donne, come aspetto fisico, e questo lo confermava anche Wanda, mia moglie. Di talune, già decedute da tempo, quando io ero ragazzo quasi adolescente, mi piaceva passare nel vecchio cimitero del paese, ormai in abbandono invaso da stoppie e dov’ erano cresciuti dei sambuchi che mettevano, in estate, i loro fiori bianchi dal delicato profumo dolciastro, a guardare le loro foto incastonate nelle lapidi. Confesso che a guardare i volti di quelle donne, nel silenzio avvolto di mistero di quel luogo, sentivo che quelle donne mi parlavano …
Povolaro un paese della val di Gorto vicino al mio (dov' ebbi i natali ) che mi ricorda tanta gente e molte vicende. In quel paese anche se nella foto non si vedono, c’erano le scuole elementari che io frequentai e la chiesa di San Floriano, all’interno della quale stava uno splendido quadro della madonna del famoso pittore Da Pozzo di Maranzanis. Si diceva che, nel volto della vergine, il Da Pozzo avesse riprodotto le sembianze di una splendida donna del mio paese, madre come ben ricordo della mia compaesana Irma Di Vora. Nella Carnia di quel tempo, anni trenta-quaranta c’erano delle stupende donne, come aspetto fisico, e questo lo confermava anche Wanda, mia moglie. Di talune, già decedute da tempo, quando io ero ragazzo quasi adolescente, mi piaceva passare nel vecchio cimitero del paese, ormai in abbandono invaso da stoppie e dov’ erano cresciuti dei sambuchi che mettevano, in estate, i loro fiori bianchi dal delicato profumo dolciastro, a guardare le loro foto incastonate nelle lapidi. Confesso che a guardare i volti di quelle donne, nel silenzio avvolto di mistero di quel luogo, sentivo che quelle donne mi parlavano …
Di Povolaro, gli ex compagni delle elementari,
purtroppo ormai sono passati tutti a miglior vita, ma i ricordi rimangono.
Vicino alla Chiesa, dove in un giorno sciroccoso d’inverno venne battezzato
Pier Nicola, uno dei miei figli, oltre alle scuole c’era anche la
latteria-caseificio. Non posso dimenticare come, nei gelidi mattini invernali
taluni da mettere i brividi, ad ore dalla luce crepuscolare donne dagli abiti
scuri con gonne lunghe avvolte in uno scialle sempre scuro, raggiungevano la
latteria, camminando frettolosamente per portare a mano o in spalla il bidone
zincato che conteneva il latte della mungitura. Soprattutto ricordo Irma
Gagliolo , con la quale avevo familiarità, donna piacente e vigorosa nata a
Sostasio in val Pesarina, moglie di un facoltoso contadino che aveva una vasta
proprietà e una capiente stalla con vacche a località Tauz sull’ altopiano che
precede il villaggio di Clavajas sulle falde del monte Podzof (termime slavo)
-Nota. Non posso infine dimenticare, riguardo Povolaro, il compagno di scuola
Carlo Negro. Lo ricordo soprattutto quando entrambi avevamo circa vent’anni col
quale, anni prima, passammo insieme (io studente) due stagioni da autentici
pastori a malga Malins, una delle più grandi della Carnia posta ai confini del
Comelico, dove salivano ad alpeggiare i mandriani della pedemontana, gente da
Prades-Pielungo. Conservo una preziosa foto scattata all’ ingresso della casera
dove io e Carlo siamo in gruppo con circa oltre venti pastori. Ricordo che
camminavamo disinvoltamente scalzi sui pascoli e lungo i tratturi pietrosi
(viaz) secondo l’usanza dei vecchi pastori delle montagne di Lauco. Ci si
alzava ad ore antelucane per accudire ai compiti di malga con un freddo da
battere i denti. Carlo, nell’estate 1944, si dette alla macchia aggregandosi a
una formazione partigiana comunista della Garibaldi che operava nell’ alta val
Tagliamento. Lui era un tipo determinato ed aveva un fegato da leone. In
settembre seppi che era caduto durante un’azione nel corso dei rastrellamenti
tedeschi che poi portarono al crollo della Resistenza e, ovviamente, provai
dispiacere e molta amarezza. Sono certo che si era arruolato con fede per
l’ideale di giustizia ed uguaglianza sociale e non per altre balle: libertà,
democrazia etc. Un pomeriggio fui informato che la bara sarebbe giunta a
Povolaro. Era tempo in cui circolavano i tedeschi e c’era poco da ridere.
Lasciai tutto e mi diressi verso Povolaro. Faceva un caldo afoso e rammento che
un un’aria leggera accarezzava i campi di granturco sulla piana che sta sulla
destra salendo verso il villaggio. I genitori di Carlo gestivano un’ osteria ed
allorchè giunsi seppi dai fratelli di Carlo, Santina e Gregorio, che la bara
era già arrivata. Era di un rovere chiaro collocata in una stanza a pian
terreno, ma i fratelli mi dissero che non la si poteva aprire per vederlo...
Trovai i due fratelli distesi rasserenati quasi disinvolti, forti diciamo.
Anche Gregorio era partigiano della Garibaldi. Con loro c’erano due partigiane
in divisa, bustina in testa con stella rossa, attorno al collo il fazzoletto
rosso quasi violaceo, camicia cachi, calzoni corti, scarpe da truppe tedesche
prelevate a qualche morto. Erano spigliate, indifferenti in modo quasi da
stupire data la circostanza, sorridenti come se nulla fosse e questo era il
clima partigiano comunista quello cioè di evitare facce patibolari. Mi dissero
che erano entrambe di Forni, val Tagliamento e lo si capiva bene dal tono del
loro idioma. Parlammo di diverse cose, del come era caduto Carlo, di
rastrellamenti tedeschi imminenti come infatti avvenne di lì a poco, mentre
Santina ci portò del vino scarlatto, direi nero in un fiasco impagliato, che
bevemmo in quelle grandi tazze pesanti di vetro grezzo da vecchia osteria.
Calava la sera quando lasciai Povolaro. Le due partigiane uscirono con me dall’
osteria ad accompagnarmi per un tratto, poi ci lasciammo che ormai faceva buio,
ma prima mi abbracciarono forte, mi dissero i loro nomi e delle frasi piacenti,
indimenticabili con quel tono indifferente, affascinante da brigatiste che,
sinceramente, è rimasto nel mio cuore…
12 gennaio 2017
PIER ARRIGO CARNIER
Nota.
Il teatro delle montagne, visto a fine giugno inizi di luglio dal menzionato altopiano, era stupendo. Nelle giornate di sole , sui prati non ancora sfalciati, l’aria accarezzava il manto d’erba, fluente ed oscillante di fiori d’acquilegia, garofano e tarassaco giallo diffondendo un profumo antico, soave appena percettibile, la tonalità dei verdi era assorbente, tenera quasi un inno delicato, gli stalli, i sentieri, taluni fiancheggiati a tratti da muri di tufo color ocra, apparivano in ordine, l’altopiano era come un giardino, qualche donna con passo lento come se la vita durasse in eterno appariva sui sentieri, non si sentivano rumori solo qualche voce distante. Questo era un lembo di Carnia degli anni della mia fanciullezza fino quasi all’adolescenza.
Nel mese di febbraio, inizi di marzo era mia abitudine passare a salutarla assieme ai familiari nel cascinale di Tauz allorchè salivo sul monte sovrastante, il Podzof, per poi lanciarmi in discesa con gli sci nel canalone detto “Lavinal” dove lei, in estate, assieme a collaboratori falciava vasti prati di proprietà . So che usciva più volte dal cascinale a guardare verso il monte per vedermi durante la precipitosa discesa. Io la notavo dall’ alto muoversi, piccolo puntino nero nel candore della neve. Al ritorno ripassavo a salutare e lei mi diceva di essere stata con le mani giunte a scongiurare una caduta nel qual caso, se finivo contro qualche faggio, veramente rischiavo anche la vita... Ad Irma piaceva accompagnare la propria mandria di vacche, stando in coda, nell’andata in malga, agli inizi di giugno, ed al ritorno al termine della monticazione, a metà settembre od anche all’inizio di ottobre. Era tradizione di famiglia portare le loro beste nelle malghe Lavardet-Mimojas, in fondo alla val Pesarina. Scendendo dall’altopiano lungo una mulattiera, nell’ andata come al ritorno, la mandria passava rasente a casa mia ed era tipico di Irma, con voce sferzante, gridare alle bestie per correggere il loro andamento per cui le chiamava an per nome: “ Furia”, “Bruna”,”Furba”, “Furmia”. “Tumicina”. I giorni dell’andata e del ritorno dalle malghe rappresentavano una specie di festa. I capi mandria, i proprietari uomini venivano sempre in testa, le donne di fianco ed in coda. Lungo le valli c’era un clima rilassato, quasi gioioso specie nei giorni di smonticazione in settembre, pervaso dal tintinnare bronzeo incessante delle zampogne. Erano i tempi, da fine anni trenta ai cinquanta, delle grandi mandrie di razza “Norica” dal mantello rossastro molto adatta ai pascoli alpini, che venivano in buona parte dalla bassa val Tagliamento e dalla valle d’Arzino (Pedemontana): transitavano migliaia di capi. Vecchia Carnia di pastori e malgari, delle malghe “Norvenas”, Podzof, “Agareit”, Zouf Plan, Chiaula Tumicina, Chiaula Grande, Dimon, Cercevesa, Plumbs, Mont di Tierc, Valinia, Gerona, Forchia, Valuta, Mont di Riu, Litim, Vielma, Vinadia Grande, Pieltinas, Festons, dove sei ?? Non c'è risposta perchè quella Grande Carnia, non c’è più !!
PIER ARRIGO CARNIER
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