PIER ARRIGO CARNIER / ANTONIETTA TEON
CARNIER PIER ARRIGO
QUEL ROVENTE FUOCO DI MALGA. REMINISCENZE.
Il recente mio libro "L'ORS di PANI", stanti i contenuti, ha riacceso fra l'altro dei ricordi sulle malghe per cui ritengo di riproporre e ripubblicare, qui di seguito, un post già diffuso sul mio sito Facebook in data 4 aprile 2013
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Mi sembra trascorso un secolo dagli anni lontani adolescenti durante i quali , studente a diporto ma in realtà nella veste effettiva di pastore, passai delle stagioni in una delle maggiori malghe della Carnia. E’ un ricordo che riemerge puntualmente in primavera guardando, da mi trovo ai confini del Veneto, le montagne annuvolate. Mi torna in mente quel sole caldo che, a vista d’occhio, faceva rinverdire il pascolo prosciugato dalle nevi, risento il brontolio dei torrenti alimentati dal disgelo, rammento il fuoco della casera dove, nel buio del primo mattino, bruciavano ramaglie d’ontano, d’abete e di larice e, standovi accanto, ti investiva un calore rovente, ma avvertivi pure, alla schiena, l’aria fredda di montagna che penetrava dall’uscio aperto. L’odore di ramaglia bruciata assieme al tipico odore di malga, salendo in estate sulle montagne nelle giornate di scirocco, si avvertiva a un chilometro di distanza.
La casera era scuola di onestà che accomunava malgari e pastori pur sussistendo, fra gli stessi, un rigore gerarchico dovuto a vari fattori che meriterebbero una spiegazione che, in questa sede, tralascio. La grande malga, stava sui monti ai confini del Comelico, sul lato destro in fondo al canale di San Canciano detto anche val Pesarina e sichiamava Malins, nome che suscitava interesse nella mentalità dei malgari, pastori e contadini carnici ai quali era nota, come se si trattasse di un piccolo impero data la vastità dei pascoli del territorio pertinente. Portava un carico notevole di bestiame tra vacche, giovenche, capre e pecore, complessivamente diverse centinaia a quel tempo fine anni trenta, nell’ immediato ante seconda guerra mondiale.
Si viveva di un’alimentazione quotidiana a onor del vero non del tutto esaustiva delle necessità caloriche : una ciotola di latte cremoso al mattino con polenta riscaldata, ricotta e polenta calda con formaggio stagionato alla mezza, siero e ricotta alla sera con polenta residuata, di quando in quando una ciotola di crescione raccolto nel campiglio, condito con olio e aceto.
Al momento della monticazione, solitamente in giugno, col primo ingresso in malga mi piaceva osservare il pascolo purificato dal lento sciogliersi delle grandi nevi, con delle zone dove notavi delle piante d’abete e di larice accasciate, abbattute dai fulmini, dal tronco e ramificazioni ossute e biancheggianti come scheletri, rese tali dal sole e dalle piogge. Il pascolo aveva aspetti multiformi e veniva utilizzato in relazione. Zone rigogliose, fluenti d'erbe con vaste chiazze di ranuncoli gialli che splendevano al sole, risultavano quelle raggiunte dalla concimazione dei letami che rigeneravano le risorse del terreno, fatti defluire, alla fine di ogni stagione, lungo canali di scolo utilizzando l'acqua piovana di una capiente pozza di riserva, posta a livello superiore. Piogge estive a volte diluvianti mettevano paura, facendo tremare la casera con fragore di lampi che parevano incendiare la montagna. Nella notte il lungo cupo muggito di qualche vacca mi dava un senso di selvaggia solitudine e, a dire il vero, mi piaceva intimamente che la notte fosse selvaggia ed insidiosa. Al solleone, col caldo, il lezzo acido del letame di vacca, accumulato all’ esterno delle tettoie, si faceva pungente, ma non era nauseabondo, essendo un componente naturale dell’ambiente. In agosto correva voce che, intorno alle malghe di quelle montagne ad ovest, si aggirassero dei ladri di pecore provenienti per sentieri segreti dall’ alta val Tagliamento. Si diceva che agissero nel fondo della notte, tant’ è che il casaro teneva a portata di mano un fucile.
Nella malga avevo imparato a conoscere il modo di essere della gente semplice che passa la vita senza notorietà, diciamo degli oscuri che non lasciano tracce nella storia. A mio giudizio vivevano rispettando i limiti dell’onestà e godevano di una loro felicità, racchiusa nei propri affetti e nelle proprie abitudini. Mi piaceva a fine stagione, in agosto, quel senso di preludio al disarmo della malga, pensando al prossimo arrivo nella casera, di solito il sei settembre, dei valligiani proprietari delle bestie per riportarsele a valle, muniti di sacco da montagna ed ombrelli dalle bordature colorate per l’eventuale pioggia, e immaginavo, assieme ad altri, l’arrivo di belle e giovani donne che sarebbero giunte da laggiù, dalla pedemontana: da San Francesco, Pielungo, Prades, Clauzetto, Vito d’Asio, Travesio, oppure da Alesso ed altri luoghi.
Mi piaceva il senso dell’attesa in quanto provocava emozioni. Degli eventi, quali essi fossero, mi interessava trarre constatazioni e, via via, riconoscevo in me stesso una forte disposizione all’ analisi delle causali. Più tardi, nel tempo e nell’ evolversi di vicende, ebbi la fortuna di conoscere Fred Zinnemann il grande regista internazionale britannico, di origine ebrea tedesca, personaggio dall’ incredibile intelligenza, al quale detti pure una collaborazione da lui richiesta lavorando al suo fianco come consulente. Fu lui a spiegarmi l'importanza delle emozioni. Mi disse che, le stesse, erano il segnale del processo sensibile più avanzato dell’uomo. Ricordo uno dei suoi ultimi film, girato sulle montagne svizzere, dal titolo“Cinque giorni un'estate”, nel quale c’è una scena dove, dopo il ritrovamento del cadavere di un alpinista che da decenni giaceva intatto in un ghiacciaio, il corpo del medesimo, adagiato su una slitta sotto una coperta, venne trasferito al paesino alpestre di fondovalle dove, per il rituale riconoscimento, fu portata sul posto l’ex fidanzata ormai novantenne, la quale, mi sembra di ricordare, non si sarebbe più sposata tenendo fede al ricordo dell’innamorato. La scena dell’attimo del riconoscimento, estremamente toccante, girata senza pronunciare parola alcuna, mi commosse fino alle lacrime . Zinnemann venne a saperlo perché, elogiando l’alto contenuto del filmato, io glielo scrissi in una lettera in quanto telefonandogli non l’avevo trovato in sede. Rammento che mi chiamò al telefono, naturalmente per ringraziarmi. Gli piacque rilevare che la lettera, stante la sua attenzione alle sfumature, quale prova tangibile per del mio patema d’animo per esprimergli la mia commossa ammirazione, portava l’affrancatura Espresso…….
Porcia (Pordenone) 4 aprile 2013
PIER ARRIGO CARNIER
La casera era scuola di onestà che accomunava malgari e pastori pur sussistendo, fra gli stessi, un rigore gerarchico dovuto a vari fattori che meriterebbero una spiegazione che, in questa sede, tralascio. La grande malga, stava sui monti ai confini del Comelico, sul lato destro in fondo al canale di San Canciano detto anche val Pesarina e sichiamava Malins, nome che suscitava interesse nella mentalità dei malgari, pastori e contadini carnici ai quali era nota, come se si trattasse di un piccolo impero data la vastità dei pascoli del territorio pertinente. Portava un carico notevole di bestiame tra vacche, giovenche, capre e pecore, complessivamente diverse centinaia a quel tempo fine anni trenta, nell’ immediato ante seconda guerra mondiale.
Si viveva di un’alimentazione quotidiana a onor del vero non del tutto esaustiva delle necessità caloriche : una ciotola di latte cremoso al mattino con polenta riscaldata, ricotta e polenta calda con formaggio stagionato alla mezza, siero e ricotta alla sera con polenta residuata, di quando in quando una ciotola di crescione raccolto nel campiglio, condito con olio e aceto.
Al momento della monticazione, solitamente in giugno, col primo ingresso in malga mi piaceva osservare il pascolo purificato dal lento sciogliersi delle grandi nevi, con delle zone dove notavi delle piante d’abete e di larice accasciate, abbattute dai fulmini, dal tronco e ramificazioni ossute e biancheggianti come scheletri, rese tali dal sole e dalle piogge. Il pascolo aveva aspetti multiformi e veniva utilizzato in relazione. Zone rigogliose, fluenti d'erbe con vaste chiazze di ranuncoli gialli che splendevano al sole, risultavano quelle raggiunte dalla concimazione dei letami che rigeneravano le risorse del terreno, fatti defluire, alla fine di ogni stagione, lungo canali di scolo utilizzando l'acqua piovana di una capiente pozza di riserva, posta a livello superiore. Piogge estive a volte diluvianti mettevano paura, facendo tremare la casera con fragore di lampi che parevano incendiare la montagna. Nella notte il lungo cupo muggito di qualche vacca mi dava un senso di selvaggia solitudine e, a dire il vero, mi piaceva intimamente che la notte fosse selvaggia ed insidiosa. Al solleone, col caldo, il lezzo acido del letame di vacca, accumulato all’ esterno delle tettoie, si faceva pungente, ma non era nauseabondo, essendo un componente naturale dell’ambiente. In agosto correva voce che, intorno alle malghe di quelle montagne ad ovest, si aggirassero dei ladri di pecore provenienti per sentieri segreti dall’ alta val Tagliamento. Si diceva che agissero nel fondo della notte, tant’ è che il casaro teneva a portata di mano un fucile.
Nella malga avevo imparato a conoscere il modo di essere della gente semplice che passa la vita senza notorietà, diciamo degli oscuri che non lasciano tracce nella storia. A mio giudizio vivevano rispettando i limiti dell’onestà e godevano di una loro felicità, racchiusa nei propri affetti e nelle proprie abitudini. Mi piaceva a fine stagione, in agosto, quel senso di preludio al disarmo della malga, pensando al prossimo arrivo nella casera, di solito il sei settembre, dei valligiani proprietari delle bestie per riportarsele a valle, muniti di sacco da montagna ed ombrelli dalle bordature colorate per l’eventuale pioggia, e immaginavo, assieme ad altri, l’arrivo di belle e giovani donne che sarebbero giunte da laggiù, dalla pedemontana: da San Francesco, Pielungo, Prades, Clauzetto, Vito d’Asio, Travesio, oppure da Alesso ed altri luoghi.
Mi piaceva il senso dell’attesa in quanto provocava emozioni. Degli eventi, quali essi fossero, mi interessava trarre constatazioni e, via via, riconoscevo in me stesso una forte disposizione all’ analisi delle causali. Più tardi, nel tempo e nell’ evolversi di vicende, ebbi la fortuna di conoscere Fred Zinnemann il grande regista internazionale britannico, di origine ebrea tedesca, personaggio dall’ incredibile intelligenza, al quale detti pure una collaborazione da lui richiesta lavorando al suo fianco come consulente. Fu lui a spiegarmi l'importanza delle emozioni. Mi disse che, le stesse, erano il segnale del processo sensibile più avanzato dell’uomo. Ricordo uno dei suoi ultimi film, girato sulle montagne svizzere, dal titolo“Cinque giorni un'estate”, nel quale c’è una scena dove, dopo il ritrovamento del cadavere di un alpinista che da decenni giaceva intatto in un ghiacciaio, il corpo del medesimo, adagiato su una slitta sotto una coperta, venne trasferito al paesino alpestre di fondovalle dove, per il rituale riconoscimento, fu portata sul posto l’ex fidanzata ormai novantenne, la quale, mi sembra di ricordare, non si sarebbe più sposata tenendo fede al ricordo dell’innamorato. La scena dell’attimo del riconoscimento, estremamente toccante, girata senza pronunciare parola alcuna, mi commosse fino alle lacrime . Zinnemann venne a saperlo perché, elogiando l’alto contenuto del filmato, io glielo scrissi in una lettera in quanto telefonandogli non l’avevo trovato in sede. Rammento che mi chiamò al telefono, naturalmente per ringraziarmi. Gli piacque rilevare che la lettera, stante la sua attenzione alle sfumature, quale prova tangibile per del mio patema d’animo per esprimergli la mia commossa ammirazione, portava l’affrancatura Espresso…….
Porcia (Pordenone) 4 aprile 2013
PIER ARRIGO CARNIER
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