mercoledì 28 novembre 2018

UNA VICENDA STORICA TOCCANTE

SONJA WALDER
LA BIMBA COSACCA DIMENTICATA SULLA DRAVA

Cari amici amici e , in ogni caso, lettori cosacchi, caucasici, sloveni, serbi slovacchi, austriaci, tedeschi, italiani, ho saputo in ritardo che l'8 agosto    c.a.  è deceduta in Austria, a St. Leonhard in Kartisch (Carinzia), la signora SONJA WALDER,che  in tenera età, bambina, fra le migliaia di profughi al seguito dell Amata cosacca del generale  Domanow fu, nel 1944-1945, in Italia,  e visse poi la tragica ritirata attraverso le Alpi . La Walder, che conobbi personalmente e reincontrai diverse volte in Austria, ebbe a suo tempo a raccontarmi la sua incredibile, toccante storia, quella cioè di essere stata dimenticata nel giugno 1945, nei caotici terribili giorni in cui i britannici attuarono la forzata consegna dei cosacchi ai sovietici, negli accampamenti della Drava.  E' una storia commovente, sulla quale, il 21 agosto 2013, pubblicai un ampio articolo documentato su IL GAZZETTINO  che  qui di seguito riporto ritenendo che meriti conoscerla. 

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Cari amici e simpatizzanti, perdonate se vi chiedo di leggere questa storia vera, qualora riteniate a primo acchito vi possa interessare, una delle tante che io ho scritto legate alla tragedia cosacca, in  parte pubblicate nel corso degli anni decorsi   e in altra parte ancora da pubblicare.


 Sonja Walder la cosacca , fattasi giovane ed avvenente, dimenticata da bambina, nei giorni della forzata consegna dei cosacchi ai sovietici, nelle baracche della Drava.


 Una delle baracche del lager Peggetz fotografata dall’autore nel dopoguerra. Il campo fu successivamente demolito e la zona  urbanizzata.


Nella devastazione provocata dalla consegna ai sovietici di circa 90-100.000 cosacchi, prigionieri militari e profughi civili negli accampamenti dell’alta Drava, nei primi giorni del giugno 1945, attuata agli ordini dei britannici dalle forze della Brigata ebraica “Giuda il vendicativo”, vagava smarrito nella terra di nessuno, insanguinata da centinata di vittime sepolte in fretta in fosse comuni, qualche essere umano sperduto. Nella grande piana degli accampamenti, tra Lienz ed Oberdrauburg, era sceso un silenzio desolante ed alle brume mattutine si mescolava l’odore degli escrementi dei cavalli che, a migliaia, per un intero mese, avevano calpestato quel lembo pianeggiante ed erano stati poi radunati dai britannici, dopo la consegna dei cosacchi, in una zona circoscritta, salvo diverse centinaia che erano state abbattute per ragioni sanitarie.- 
Una pattuglia di Polizia britannica in perlustrazione s’imbatte, com’era accaduto sulla spiaggia di Anzio allorché sbarcarono gli americani della Va armata del generale Clark (il 22 gennaio 1944) in una bambina di poco più di un anno e mezzo, sola, nei baraccamenti detti di “Peggetz” alla periferia sud di Lienz. La piccola era stata evidentemente abbandonata nelle circostanze di panico provocate dalla consegna, concepita con cinismo dai massimi esponenti anglo-americani assieme a Stalin, e cioè la restituzione forzata al despota del Kremlino di esseri umani che, invece, avevano diritto ad asilo e protezione onde  essere sottratti alla condanna nei campi penali della Siberia e quindi a un sicuro destino di morte. Nei baraccamenti di Peggetz furono notate e fotografate, nell’immediato dopoguerra, scritte significative una delle quali in inglese, del seguente tenore : “Meglio morire qui che essere mandati nell’URSS”.
Della piccola creatura abbandonata si prese amorevolmente cura una donna austriaca dell’Östtirol, su cui  in seguito riferirò.
Premetto che, pur avendo avuto sentore, in anni lontani, della straordinaria e singolare vicenda e nonostante le mie relazioni internazionali a livello di esponenti delle associazioni russe  in esilio che via via riunirono i superstiti, solo recentemente mi fu dato di  venire a concreta conoscenza entrando direttamente in contatto con la protagonista, fattasi donna  con figli ormai sposati e nipoti. Mi accingo pertanto a raccontare la sua storia in base alle sue dichiarazioni.-
“Mi chiamo Sonja Antonia Walder e non ho mai saputo chi siano i miei genitori. Nei giorni in cui i cosacchi furono consegnati ai sovietici dagli inglesi, molti cercarono liberamente la morte gettandosi  nelle acqua della Drava (oltre a quelli che furono massacrati, negli accampamenti, nell’azione della forzata consegna, ndr). E anch’io dovevo morire travolta dalle acque, il che non accadde perché ero molto ammalata e stavo nel mio giaciglio in una baracca.”
Fu una signora austriaca, Antonia Hanser, cittadina di Lienz, madre di tre figli e il cui marito si trovava in guerra, a prendersi cura di me, rendendosi conto del mio stato precario dovuto a dissenteria. In seguito lei mi dichiarò e me lo ripeté più volte, appena fui in grado di comprendere, che una donna cosacca, in stato di disperazione, disse implorante di prendermi per curarmi e salvarmi. Si trattava evidentemente di una cosacca che, come altri, era sfuggita alla consegna ma nella signora Hanser rimase un forte dubbio che fosse effettivamente mia madre”.
“Ero in stato di trascuratezza pietoso e per il mio spidocchiamento mi furono tagliati i capelli molto corti. Non avendo la signora Hanser la possibilità di nutrimento nemmeno per i suoi tre bambini, non senza difficoltà riuscì a farmi accogliere in una casa di cura, al nr.1 della Schlossgasse di Lienz, dove rimasi per alcuni mesi. Fortuna volle che la signora Hanser parlasse occasionalmente  a Lienz del mio caso alla signora Rosina Walder,  la quale, a sua volta, ne riferì alla sorella Maria, sposata Kock, suscitando in lei attenzione e tenerezza nei miei riguardi. La medesima decise, infatti,  di accogliermi nella sua fattoria posta  in una borgata dell’Obergail, territorio che cade sotto la giurisdizione dell’Osttirol, previo consenso del marito, signor Johann Kock, che si trovava allora prigioniero in Iugoslavia. Questi aveva già espresso l’idea di compiere, appena liberato, una buona azione allorché sarebbe rientrato salvo dalla prigionia. Fu rilasciato nel 1947”.
Prima ancora che la signora Rosina Walder passasse a prendermi in bicicletta, presso la casa di cura nella Schlossgasse, fui battezzata con rito cattolico con il nome di Sonja Antonia. La mia data di  nascita, sulla base di un’analisi eseguita da un medico, fu fissata il 3 giugno 1943”.
Dato il mio lungo impegno dedicato a ricostruire storicamente l’intera vicenda cosacca, in buona parte su elementi di prima mano, devo dedurre, prendendo per valida la data di nascita accennata del 3 giugno 1943, che la bambina era venuta alla luce sul suolo sovietico durante l’esodo dei cosacchi al seguito dei tedeschi in ritirata, dopo la sconfitta della 6a Armata di von Paulus a Stalingrado. Aveva quindi stazionato, con le forze dirette verso occidente in Podolia nonché a Novogrudok e Baranovichi in Bielorussia e quindi era giunta in Italia nell’Adriatisches Küstenland, dove  seguì l’iter dell’insediamento in qualche presidio con probabili successivi spostamenti.
In realtà, comunque, assumendo il nome di Sonja Antonia, la piccola cosacca era nata una seconda volta nell’alta Drava, nell’Osttirol, come un fiore sbocciato nella tragedia.
“ Più tardi la signora Hanser - continua Sonja - riguardo la mia vicenda, mi riferì che sulla porta di una chiesa di Lienz, fu notato un biglietto nel quale stava scritto in tedesco: “Ich mochte noch einmal mein Kind schen!”( Io voglio vedere ancora una volta il mio bel bambino !). E poiché in tedesco Kind sta per bambino o bambina, ciò indusse a ritenere che, quel biglietto, si riferisse al mio caso per cui la madre fosse presente fra i cosacchi sfuggiti alla consegna.”
“In base a tale messaggio, l’addetto all’ufficio parrocchiale  portò la signora Hanser assieme a me in una baracca a località Peggetz, dove si trovavano due donne cosacche. A giudizio della Hanser, mia prima vicemadre,  la più giovane delle due era mia madre. L’argomento dette luogo a varie disquisizioni. Tuttavia a causa di differenti discorsi ingannevoli, su nessun dato si potè contare” .
“Le speranze che alimentarono l’intenzione di  risalire, attraverso indizi, ai miei genitori e comunque a mia madre, pur trascinandosi per lungo tempo in una costante ripresa di considerazioni e valutazioni, rimasero senza soluzione”.
 Per la storia Sonja è quindi la bambina di appena 19 mesi abbandonata nelle baracche di Peggetz a causa delle caotiche conseguenze provocate alla brutale consegna dei cosacchi ai sovietici.
Nei ricordi e valutazioni resta opinione prevalente che la madre sia morta per annegamento nelle acqua della Drava in piena in quelle lontane afose giornate di inizio giugno 1945. Diversamente potrebbe avere subito la consegna forzata, essere cioè stata spinta sulle tradotte predisposte per il trasporto a Judenburg, nella Stiria, in mano sovietica, (dalle quali dei testimoni rammentavano di avere udito dei gemiti al loro passaggio per Oberdrauburg) rinunciando a raccogliere la figlia ammalata che giaceva nelle baracche, per lasciarla a miglior destino. Un vago dubbio però rimane, come accennato in precedenza, che cioè la donna disperata, sfuggita alla consegna, che aveva supplicato la signora Hanser a prendersi cura della bambina e che poi risultò  abbia lasciato Lienz per emigrare oltreoceano, potesse essere stata la vera madre.
Sonja  prosegue “Accolta nella famiglia austriaca Kock, proprietaria della   fattoria alpestre a cui già accennai, via via crebbi uniformandomi al clima della tradizione ambientale, appresi la lingua e svolsi la mia parte nei lavori quotidiani, portando avanti contemporaneamente gli studi.  Si viveva in armonia con la gente del luogo. Tra le amiche ricordo volentieri le sorelle Marianne e Agnes.  Maria Kock, la mia nuova vicemadre, che fu con me generosa di affetto e da cui ricevetti fondamentali principi educativi all’insegna della cristianità, soffriva purtroppo di deficienza cardiaca era cioè cardiopatica e, dopo qualche tempo, si aggravò. Per meglio essere assistita e curata, si trasferì dall’Obergail a Tristach, villaggio alla periferia nordovest di Lienz, ospite dalla casa parrocchiale dove c’era uno zio prete. Dopo un breve miglioramento, rientrata nella fattoria, decedette. Era l’anno 1964”.
Sostanzialmente Sonja crebbe nella realtà contadina dell’Obergail (Osttirol) dalle zone prative alpestri, in estate folte di erbe,  profumate d’arnica e di garofano selvatico,  dove si allevano come altrove, le vacche dal mantello  rosso pezzato  o della specie “Pizgauer”  dal mantello rosso scuro. Essa assorbì le nozioni ed i principi morali della terra austriaca esuberante di tradizioni, che fu imperiale e dove gli Schutzen, tipica organizzazione non sol folcloristica dalle radici storiche, si riuniscono puntualmente in adunate, indossando l’uniforme, in genere dal tessuto color tabacco, dalle bordature sgargianti e dal cappello infiocchettato con lucenti scure penne d’urogallo, con bande  musicali che scandiscono nelle piazze solenni marce. Avvertì comunque insopprimibile e costante il senso di un legame interiore con l’immensità della sua terra orientale d’origine: la Russia.
In fondo lei si considera giustamente fortunata. Abbandonata in quei terribili  giorni della forzata consegna nelle baracche della Drava, diversamente sarebbe  morta per annegamento nel fiume, avvinghiata alla madre, oppure,  come la quasi totalità dei deportati,  nei lager siberiani per fame, maltrattamenti o addirittura nel corso del penoso viaggio sulle tradotte. E’ noto che, nelle tappe di sosta del lungo viaggio di deportazione, la polizia sovietica scaricasse i numerosi morti dai vagoni delle tradotte, seppellendoli dove capitasse in fosse comuni,  senza nemmeno  accertarne ed annotare  l’identità.
Nell’ottobre del 1966, ventitreenne avvenente, bella e graziosa, Sonja, come risulta dalle foto del suo album di ricordi, dotata di quel tipico fascino e temperamento della donna cosacca, convolò a nozze con Christian Walder, cittadino austriaco specialista in carpenteria da costruzioni. Dal matrimonio nacquero tre figli, ormai adulti e professionalmente affermati. Oggi  i coniugi sono allietati dalla presenza dei nipoti.
Finisce qui la straordinaria storia di Sonja, ma vorrei aggiungere dell’altro e cioè che lei non fu comunque la sola ad essere abbandonata a causa delle  circostanze connesse alla vicenda cosacca. Lungo le vie della ritirata nel nord Italia, bambini in fasce furono  abbandonati in ore antelucane, dalle colonne cosacche in marcia, qua e là presso abitazioni, contando evidentemente nell’idea che la popolazione vi avrebbe preso cura. I neonati vennero in realtà premurosamente raccolti ed assistiti e poi presi in affidamento da persone.
In ogni caso nell’alta Drava fu pure trovato abbandonato  un bimbo di quattro-cinque anni, che fu curato, adottato e quindi cresciuto da valligiani dell’Osttirol  ed oggi egli è un uomo con figli e nipoti. Si tratta di Michael Rainer, che  ovviamente assunse il cognome della famiglia dalla quale venne adottato. Mi venne presentato  in occasione ad una delle commemorazioni annuali della tragedia della Drava. Mi dichiarò di essere diretto testimone dell’azione brutale della consegna dei cosacchi ai sovietici, scena rimasta indelebile nella sua memoria. Era il primo giugno 1945 ed egli, assieme ad altri ragazzi, donne  e cosacchi  si trovava nel cordone umano  creato attorno all’altare, dove il pope, Vasily Grigoryev, stava celebrando la messa in onore dello zar Pietro il Grande. Vide coi propri occhi avanzare minacciose, impugnando le armi,  le forze della Brigata ebraica che, in esecuzione all’ordine britannico della consegna esigevano l’immediata evacuazione. Le stesse gridavano ordini e a un certo punto presero ad usare il calcio del fucile a mo’ di clava contro la massa ondeggiante e terrorizzata dei cosacchi per spingerla, come un gregge, verso il  punto di scalo delle tradotte. Fecero infine uso delle armi. “Taluni ebrei parlavano russo e lituano…”., dichiarò  Michael Rainer, prezioso testimone.-
 21 agosto 2013
                                                 PIER  ARRIGO  CARNIER




NOTA SUCCESSIVA  in data 17 ottobre 2016

Questa storia vera, credetemi, e molto rilevante. In anni molto lontani quando raggiunsi come primo italiano i luoghi della consegna ai sovietici sulla Drava, a località "Peggetz", c' erano trecento e più cosacchi superstiti nelle baracche del lager. Parlai a più riprese con la maggior parte di loro che mi raccontarono le proprie sofferte vicende. Il Burgermeister (Sindaco) di Lienz apprezzò molto il mio interesse a convocò diversi cosacchi a deporre presso l'Amtgemeinde (Municipio) sulle vicende della consegna, testimonianze che appaiono pubblicate, e vi risulta il timbro del Municipio, nella prima pubblicazione del mio libro "L'Armata Cosacca in Italia 1944-1945" anno 1965 diffusa dal grande editore svizzero De Vecchi che aveva sede a Milano.
             
PIER ARRIGO CARNIER









Dolore di Lienz-cosacco. ha condiviso un post .
6 agosto
Regno dei cieli. Signore, Dio riposa l'anima della ragazza cosacca appena riposata. Per quanto riguarda il destino di Sony, Walder ha scoperto quando stava traducendo un articolo su di lei. Il suo destino è il destino di molti bambini dei cosacchi assassinati a Lienz dal governo satanico. Pace eterna nei villaggi del Paradiso.

martedì 27 novembre 2018

So gingen die Kosaken durch die Hoelle - COSI' I COSACCHI PASSARONO PER L'INFERNO

    


Commenti

Pier Arrigo Carnier In questo libro di Wenzel risulto come coautore anch'io con degli scritti e fotografie sui cosacchi relativamente alla loro presenza in Italia nel 1944-1945. Ricordo che questo libro fu presentato a Lienz dal mio amico Emil Wincler, ex Burgermeister della città che,, con la moglie, fu arrestato dai britannici e tenuto per due anni nel Lager di Wolksberg. Eravamo molto amici e fu lui che , conoscendo l'ex Gaulaiter del Tirolo Franz Hofer che si trovava in Germania, mi dette la possibilità di incontrarlo per cui potei sapere da Hofer molte vicende riservate che mi riservo di rivelare. Ci si trovava coi cosacchi superstiti a commemorare la tragedia della Drava. Conservo dei cari ricordi. A mezzogiorno per il pranzo tutti ci riunivamo all' Hotel Boznerhof, oppure al Dolomiten o al " Zu goldenen Fisch". Presidente dell' Associazione cosacca che curava la celebrazione annuale era l caro amco Iwan Tschongow . Veniva dagli USA il generale G. Glaskow e così anche il Polkovnik Nikolai Nazarenko del quale ero pure amico. A suo tempo venne pure l' atamano generale Wiaceslaw Naumenko, con cui ero da tempo in corrispondenza, che mi volle al suo fianco sulla Drava a "Peggetz". Volle ascoltare le mie testimonianze sulla tragedia essendo io stato l'italiano che giunse dopo sul posto e con l'appoggio dell' allora Burgermeister ebbi ad ascoltare i superstiti, oltre trecento, insediati nelle baracche dell' ex lager "Peggetz". per cui conoscevo bene, con molti particolari, la brutale operazione forzata della consegna. Molti dei partecipanti di quegli anni lontani non ci sono più. Ricordo che ad una delle commemorazioni, anni sessanta-settanta, un cosacco, sulla sponda destra della Drava, dirimpettaia del cimitero cosacco di "Peggetz", scandiva con la tromba le note della ritirata cosacca il che mi commosse.....😀😁Altre volte duante la cerimonia commemorativa, talune vicende mi commossero e piansi : conservo sempre nel subcosciente i ricordo della notte sul 3 maggio della ritirata cosacca, quelle colonne cupe dei cosacchi, mentre nevicava, i che procedevano in silenzio attraversando il mio paese dirette in Austria ed io avvertivo, in quell'immagine la grandiosità del popolo cosacco. e psicologicamente mi sentivo dalla loro parte.... 27 novembre 2018 CARNIER PIER ARRIGO

Gestire


Rispondi5 hModificato

Лиенц-казачья боль.
Caro Signor Pier Arrigo Carnier! Come cosacco vi ringrazio di cuore per il vostro lavoro su questo libro. Erlich dice che questo è un monumento per il nostro popolo. Non dobbiamo mai dimenticare queste sanguinose tragedie.

venerdì 23 novembre 2018

RICORDI PERSONALI SULLE VICENDE PARTIGIANE DELLA CARINIA 19441945

IL COMMISSARIOPARTIGIANO ALFONSO , DETTO ANCHE CRUCHI E DELL'ALTRO

                              

Quello che mi accingo a pubblicare è un ampio stralcio di un precedente mio post dal titoloINTERVENTO CRITICO SUL FILMATO “ CARNIA 1944 IL SANGUE DEGLI INNOCENTI  pubblicato, nei miei siti Facebook e Blogger, il 23 febbraio 2013 di cui riporto una parte introduttiva per poi far seguito con due  casi trattati nel medesimo, l'uno riguardante il commissario partigiano comunista ALFONSO, detto anche CRUCHI (Amadio De Stalis ), l'altro il podestà di Sappada, anni 1943-1944, LUIGI  CECCONI.


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”  Il film del regista americano  Spiche  Lee “ Miracolo a S.Anna” girato nel 2008 a S.Anna di Stazzema, rievocando le circostanze di una dura rappresaglia tedesca risalente al 1944,  ha aperto gli occhi gli italiani sulla resistenza.  Nella sua “prima” a Firenze è scattato infatti l’applauso ed il regista è rientrato negli Stati Uniti  con la cittadinanza onoraria di Stazzema. Di recente è stato girato in  Carnia, non un film,  ma un documentario dal titolo “Carnia 1944 . Il sangue degli innocenti”: una vicenda pressochè analoga riferentesi a un’azione di rappresaglia tedesca verificatasi   nel 1944. Nel medesimo, anzichè presentare i fatti con spirito aperto ed evolutivo  s’è invece insistito in una linea scenica ricognitiva  vecchio  stereotipo resistenziale, intesa scopertamente a difendere l’operato partigiano comunista, rifuggendo dall’effettiva realtà. Pur essendo già  intervenuto,  nella mia pagina pubblica, con una nota critica sull’argomento mi permetto un secondo appropriato e motivato intervento  che mi accingo ad esporre, dettato non  da spirito contestatario, ma da palesi esigenze correttive costruttive ed integrative nel rispetto  della verità.
Ricollegandomi all’immagine fornita dal cronista Sollero Natalino in un articolo sul Gazzettino di Venezia, edizione di Udine del 21.7.1994 in cui il medesimo  asseriva : “ I fatti sono ancora bene impressi tra gli anziani di Paularo che ricordano i partigiani scendere a valle come barbari: capelli lunghi sul torso nudo fazzoletto rosso al collo forme di formaggio infilate sui fucili, cavalcavano e trascinavano numerosi cavalli ed armenti “ frase che, nel mio precedente intervento  del 17 gennaio, ritenni appropriata, quale risultanza dello status di circostanze. Senza negare che, in fondo al tutto, vi fosse stato  un filo conduttore ideale, nella veste di testimone, ritengo ora di esporre  brevemente dei fatti connessi al sostantivo “barbari”,  fra molti altri  di mia conoscenza.

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In un mattino di fine maggio 1944, appena uscito di casa per portarmi al mio ufficio al centro del  paese, vidi avanzare sulla strada due partigiani e fra loro un uomo alto barcollante. Mi fermai rendendomi conto che c’era qualcosa di sinistro. Appena mi furono vicino vidi che l’uomo barcollante grondava sangue dalla testa ed aveva un orecchio quasi strappato. Riconobbi in lui la guardia campestre del comune, di nome Venier, che svolgeva da anni quel compito, persona nota per la sua correttezza nel dovere. Rimasi impietrito. Giunti vicini alla mia casa, dove  mi ero fermato,  il Venier,  dall’uniforme di guardiano insanguinata, si accasciò sulla  una breve gradinata che portava nell’orto. Ansimava e, con voce spossata, disse in carnico  “ Uccidetemi ma non torturatemi”. Venni preso da paura e ricordo che non mi venivano  in mente  le parole per  gridare qualcosa.  Mi resi  anche conto che il Venier doveva avere un braccio spezzato. Conosevo personalmente i due partigiani: uno, commissario partigiano della Garibaldi, nome di battaglia  Alfonso, e come già introduttivamente precisato detto anche Cruchi   (Amadio De Stalis) , venditore ambulante di indumenti :abiti, camice, cravatte. Spesso, con la sua mercanzia, si metteva di domenica sul sagrato della Pieve di San Giorgo che, dall alto di una cuspide domina la val Gorto e il mio paese, in attesa della gente che, a fine messa, usciva di chiesa. L’altro, pure partigiano  della Garibaldi, si chiamava  Puschiasis, era di Rigolato, di professione boscaiolo e, come tale, aveva lavorato nell’ azienda dalla quale, allora studente, io  dipendevo come amministrativo.  Dopo alcuni minuti il Puschiasis, col calcio del fucile vibrò al Venier,  che mandò un gemito, un colpo  ad un fianco gridandogli :  andiamo. Mia madre. avendo avvertito qualcosa, era uscita di casa. Resasi conto del terrificante spettacolo mi grido’ agitata: “Vattene via!” Io non potei trattenermi e gridai : “ Ma cosa fate, lasciate quell’uomo…!! “.  Al che il Cruchi mi disse: “ Non impacciarti, ti conviene !”
Qualche giorno dopo seppi che il Venier   era stato fucilato in fondo alla val Pesarina lungo il rio  Malins, un luogo scelto per le esecuzioni dove io stesso passando, per recarmi alla malga sul monte omonimo, notai ad una curva i cumuli di diverse fosse. Corse voce che la ragione dell’uccisione del Venier fascista  sarebbe stata una questione personale del commissario  Alfonso e di che si trattasse ebbi anche qualche allusione informativa che tuttavia tralascio di esporre.
 Rammento poi che, dopo un po' di tempo, la vedova del Venier assieme a a un'altra donna e un prete, venne a parlare con l'amministratore unico dell' azienda dove io lavoravo in quanto membro importante del C.L.N - Comitato Liberazione Nazionale  Val Gorto,  implorando di voler conoscere il luogo di sepoltura per provvedere al ricupero della salma ed ovviamente vennero date  tutte le informazioni ed anche le prestazioni necessarie  per il ricupero.
Il commissario Alfonso  ( Cruchi)  morì  nella primavera 1945 nei dintorni di Ravascletto, com' ebbi a precisare, a pag. 97 del mio volume "L'Armata Cosacca in Italia 1944-1945": cadde sotto una raffica sparatagli dai montanari del Caucaso  mentre,  dopo essere stato scoperto in seguito a delazione, nascosto in un   rifugio di una borgata isolata e quindi arrestato,  approfittando di un attimo disattenzione degli addetti alla sua custodia, stava fuggendo.
Sempre in quel periodo, agli inizi di luglio,  assieme al mio titolare stavamo andando in macchina in  fondo alla val Pesarina ai confini del Comelico, per ragioni di lavoro in quanto l’azienda  aveva in  corso in quella località l’utilizzazione di un lotto di piante resinose. Attraversando il paese di Prato Carnico notammo un assembramento di gente vicino ad un bar per cui il mio titolare ritenne di fermarsi. Uscimmo dalla macchina e lui chiese a caso ad un uomo che cosa vi fosse. Questo tentennava a rispondere mentre un altro, avvicinatosi disse: “ I partigiani, laggiù, vicino al fiume, hanno fucilato un uomo”. “Ma chi ?”. Chiese il mio titolare e questi disse: “ Un "sappadino", il podestà di Sappada” e, sottovoce  :“ Lo ha fatto fucilare il commissario…. “.
A quella frase il mio titolare mi guardò significativamente ed io risposi al suo sguardo altrettanto significativamente: entrambi sapevamo e conoscevamo perfettamente il  commissario.
A fronte del paese dove ci trovavamo, alla destra  del fiume Pesarina che scorre circa due,trecento metri più sotto, stava dirimpettaio Pradumbli noto paese di  anarchici  dove, come io sapevo, il commissario della Garibaldi, diciamo di un battaglione della stessa,  teneva  i quel periodo la sua sede  acquartierato in un piccolo locale pubblico  che  funzionava da bar e  trattoria. Lo gestiva allora una giovane donna, “Meri.” che ben conoscevo, nota perché mai la sua presenza mancava nelle feste da ballo della valle che anch’io frequentavo. Passando al fatto dell’uccisione, uno delle tante in quanto in quel periodo era va detto  era in atto un programma di pulizia politica, che stav nelle regole della lotta partigiana comunista  con l’eliminazione di civili oppositori, collaboratori o fiancheggiatori dei fascisti o dei tedeschi sul terreno, o presunti tali. La vittima del giorno era  Luigi Cecconi,  podestà di Sappada, fucilato sulla destra del fiume ed ivi sepolto. Ai familiari come io seppi avendo in seguito, nel corso di mie ricerche, preso contatti con gli stessi  (aveva moglie e cinque figli), con  cinica finzione fu fatto credere, fino al tardo autunno, ch’egli fosse tenuto prigioniero, tant’è che gli stessi, tramite i partigiani, ritiravano la sua biancheria   e gli facevano tenere il cambio. Questa precisazione apparve anche in un mio articolo a piena pagina sul Gazzettino di Venezia, edizioni di Udine e Pordenone, dal titolo “Carnia libera.Le opposte verità” in data 21 settembre 1999





Luigi Cecconi podesta del comune di Sappada e rifondatore del partito fascista sotto il nome di partito fascista repubblicano. Archivio storico P. A. Carnier - Porcia (PN) Riproduzione vietata


Detto in breve a carico del  Cecconi, come capo di imputazione  per l’avvenuta  condanna  capitale, stava l’accusa  di avere rifondato, nel comune di Sappada, la sezione del  partito fascista sotto il  nuovo nome di partito fascista repubblicano. Anni dopo, allorché mi capitava di passare per Pradumbi, perché di là passava la mulattiera che portava alle malghe,  mi  fermavo  a salutare “Meri.” la barista locandiera. Tornammo più volte sul caso Cecconi. Lei diceva : “ Lo fece fucilare laggiù prima del ponte e seppellire là in una buca scavata nella ghiaia, quel pover’uomo che implorava salvezza, padre di cinque figli. Sono stata male per un pezzo e ogni volta  mi ricordo sento pena, ma allora  era così. Lui, il commissario, girava qui dentro nervoso con delle  carte in mano, fazzolettone rosso al collo e spesso la mano sulla pistola  “. Poi  “Meri” aggiungeva :” Lo sai benissimo che   il commissario era  molto conosciuto nella valle di Gorto ed anche qui in val Pesarina era considerato una brava persona, ma resta il fatto che condannò e fece fucilare  quel bravuomo, podestà di Sappada."
“Del resto tu lo conoscevi bene il commissario così come conoscevi tutti gli altri del suo contorno: Ivo Toniutti (Ivan)   Stefani Odino, detto il “Didi” ed altri ancora che si aggiravano  qui dentro nel lo-cale. Poco tempo dopo però morì anche lui, il commissario, si vede che era destino !”
Un vecchio che stava in silenzio seduto ad un tavolo del locale ed aveva ascoltato il nostro dialogare,   girandosi verso di noi, disse : "Dio ha la mano lunga !"

                                                                      *        *       *
Cari lettori, le due uccisioni, quella del Venier guardia campestre e del Luigi Cecconi, podestà di Sappada, avvenute per mano comunista oltre settant’ anni fà, nel 1944 in Carnia, nell’ iniziale clima resistenziale, stante il potere costituito della Repubblica Sociale Italiana con sovranità tedesca motivata da circostanze di guerra dell’ alleata Germania, sono state riferite nella loro realtà oggettiva. Oggi su singole uccisioni e stragi del periodo resistenziale (1944-1945) trattate da autori esordienti e non, onde rendere i propri scritti in sintonia col clima dominante della politica di sinistra, tutrice della resistenza, si assolve globalmente qualsiasi oscuro aspetto della vicenda partigiana, appianando con un colpo di spugna delitti e stragi, considerando vanificata da giusta causa ogni possibilità di analisi con una fraseologia abilmente generata del tipo seguente: " poichè il tutto ebbe a verificarsi combattendo una guerra dal confine incerto tra il giusto e l’ ingiusto o tra il bene ed il male, col risultato della riconquistata libertà pagata con la propria vita". Pur condividendo che la resistenza ebbe complesse ed evidenti difficoltà, come tutte le sollevazioni, con incertezze tra il giusto e l’ingiusto, dissento fermamente dall' affermazione artificiosa espressa con la frase di " riconquistata libertà" che non rispecchia la realtà. La preponderanza delle forze partigiane non si era infatti battuta per la democrazia, ma all’ insegna del partito comunista, il che non significava libertà, ma instaurazione di un nuovo regime. Se infatti a fine guerra non vi fossero state sul territorio nazionale le divisioni corazzate alleate unitamente all'armata polacca di generale Anders, l 'Italia, come asserì il leader comunista Palmiro Togliatti, educato alla scuola di Stalin col cui consenso fu artefice della svolta politica di Salerno, avrebbe avuto un governo se non comunista quantomeno progressista, al quale auspicava fermamente la maggioranza delle forze partigiane. Tenendo ferma questa ineccepibile ed incontestabile realtà, sotto il profilo storico, va quindi trattata l’ analisi della resistenza.

18 novembre 2018 CARNIER PIER ARRIGO